martedì 27 ottobre 2015

Dice.


Dice che l'avevano visto strano, ultimamente. No strambo come al solito: strano, proprio.
Aveva buttato su 'sto barbone squinternato, coi buchi di pelo sulla faccia, perchè non è che gli cresceva la barba bene - come va adesso, con tutti i crismi della mascolinità e contemporaneamente della radanatezza - era più una taiga di peli irti che lasciavan radure di guancia e mento, di basetta e pappagorgia. I capelli, come sempre, un bagno di sangue. Piglia tutti i lecchi immaginabili, il riccio dove andrebbe il liscio, il liscio dove andrebbe il riccio e mescola con una notte sotto farmaci per far abbassare la febbre, e ne avrai solo una vaga idea.
Allora Vai dal barbiere, dice che dicevano. E lui, andava dal barbiere. Lo chiamava fuori, ci faceva un po' di ragionata e poi lo portava a piedi a prendersi un caffè, nel bar lontano. Perchè - dice - si voleva far vedere che aveva tempo di andarci e aveva pure l'amico barbiere, però tanto era. Così, a sfregio.
Dice che forse ne aveva viste troppe, e allora - sempre più spesso - si stendeva di fianco ai figli che dormivano, senza toccarli ma a qualche centimetro, da sentirne il calore. Che poi questi crescono - dice che diceva, ma non si sa - e io poi non lo so mica, se sono al sicuro come adesso. Quel "sono", non abbiamo mai capito se parlava dei bambini, o di lui.
Dice che l'avevan visto piangere, delle volte, e allora tutti Mo' dai, ma cosa fai, cosa c'è e lui Lascia stare, lascia stare, non toccare niente, meno male che mi funziona la valvola e allora dice che chiedevano Che valvola e lui Quella che spurga il troppo, che il troppo è in forma liquida, a quanto pare.
La televisione - dice che diceva - Ci posso fare un acquario e allora tutti lo si perculava un po' dicendo È vecchia questa, e poi c'hai la televisione a schermo piatto, cosa vuoi "acquario" e allora rispondeva Ci metto le sogliole.
Dice che parlava da solo più del solito, allora qualche giovane di quelli ancora insolenti perchè la vita non li ha ancora trattati abbastanza male l'ha seguito a spiaggia e ha scoperto che parlava coi legni portati dal mare; Dove sei stato, cos'hai visto? Bisogna che prima o poi mi ci porti e intanto - ogni tanto - li accarezzava.
Una volta dice che l'han visto che - dopo una di quelle carezze - s'è leccato il palmo della mano.
Quand'è sparito, abbiam trovato il suo cappello sul bagnasciuga.
A spiaggia, dice che non c'era neanche più un legno.

mercoledì 19 agosto 2015

In morte di Mephisto.

Mephisto è nero, ha il pelo lungo e la coda vaporosa. Nonostante abbia la faccia di quello che ci seppellisce tutti, ieri ci è toccato di seppellirlo - sotto un albero di fianco a una panchina bianca, in campagna, però che guarda verso casa e verso il mare - perchè è morto di Libertà.
Cacciatore di enormi falene e instancabile colonizzatore di colonne e pensili, Mephisto mi viene a prendere alla macchina quando torno dal lavoro o mi corre di fianco quando faccio due passi, dribblando cancelli e scavalcando colonne.
Grande scalatore, veglia dall'alto del frigo mentre mangiamo e in inverno ci scaldiamo sul divano quando mi si acciambella sui piedi, mentre tutti gli altri di casa dormono.
Mephisto ha rotto un pezzo di tettoia a furia di saltarci sul terrazzo e io la devo rinforzare - se no ci piove sulle macchine e magari mio zio si incazza, pensavo - ma mi sa che la lascio così.
Romagnolo, gli piace rotolarsi nella sabbia posata a terra dal vento nei giorni di burrasca grossa.
Gli dico "Fai attenzione, là fuori", quando vuole uscire, ma stavolta è andato storto qualcosa per cui noi - per non lasciare nulla di intentato - abbiamo presentato ricorso al Tribunale dell'Equilibrio Astrale e del Buon Pensiero, perchè ci risulta che Mephisto debba avere almeno altre quattro o cinque vite.
Stanotte son passato in salotto perchè volevo bere un bicchiere d'acqua e lui non era nel lettone assieme a mia moglie e a sua sorella - nel senso della sorella di Mephisto, non di quella di mia moglie - e ho visto nella penombra questa cosa nera su una poltrona, quindi ho allungato la mano e accarezzato; non penso che appoggerò mai più il mio zaino su una di quelle poltrone.
I bambini sono molto bravi, anche se mi sa che io non son proprio un gran esempio. In casa, abbiamo delle gran facce da daini sotto l'acquazzone e ogni tanto - quando gli altri non ti vedono - ci si appoggia a una parete per reggere il sospiro in arrivo e eventualmente, far due lacrime.
Mephisto, mi dà fastidio se ne sento parlare al passato e in casa c'è un'aria di sofferenza che ci puoi appoggiare la bicicletta.
Però in eredità m'ha lasciato - tra l'altro e per esempio - che con mio figlio grande erano mesi, che non ci si abbracciava così.

venerdì 22 maggio 2015

Uomo in mare! Anzi, due.

Sto messo male.
Sono settimane che tiriamo, al lavoro e a casa, e tagliare tutte le siepi attorno a casa - da solo - mi ha regalato dolori ovunque, il giorno dopo. Però qui, non son giorni in cui scherzare: han messo vento a quasi 50 km/h da NNE, per circa tre giorni consecutivi. Se stai sul mare, vuol dire Se hai qualcosa di ormeggiato e non è in porto, tira su tutto. Oppure aspetta e tirane su i pezzi, dopo. Allora chiedo aiuto a mio figlio grande, che di mestiere - al momento - fa il ragazzino. Ho bisogno di una mano  a tirare su il moscone, e lui, quando glielo dico, facon la testa.
Lo guardo, mentre andiamo a spiaggia. Porta il carrello al posto mio, con una mano, cercando di imitarmi. Ha più chili di quelli che dovrebbe, addosso: è stato invaso dall'apparire di un fratello piccolo, una decina di anni fa, e da tutte le richieste e aspettative della scuola. Così, non volendo farlo a parole, ha allontanato gli altri ampliando un po' i confini del suo stesso corpo. Cammina molleggiando sulla parte davanti dei piedi, con l'incedere dei bambini che trotterellano, ogni tanto.
Gliel'ho detto, che ero un po' mal ridotto, ma forse aveva avuto il dubbio che lo facessi per coinvolgerlo.

Si offre di entrare lui, in acqua, a prendere il moscone, ma gli dico che ci penso io. Mi vede, da lontano, che mi dà fastidio l'acqua fredda, anche se - di solito - non mi dà mai fastidio. Gli avevo detto che il moscone l'avrei portato a riva, ma gli faccio segno che mi sarei lasciato scarrocciare fino alla spiaggia, e che mi segua sulla battigia, col carrello.
Vetroresina e legno toccano la sabbia, e Alziamolo e Mettiamo sotto il carrello e Fai forza lì e E' fuori, è fatta e Spingiamo, dài.

Ogni tanto zoppico, ogni tanto ho una fitta, e lui mi aiuta.
Poi, succede che abbiamo finito, che non ho più bisogno del suo aiuto. Ci incamminiamo per tornare a casa e lui porta il carrello con una mano sola, ma a modo suo.

E ha paura.

Avevo bisogno, ero malridotto: era vero, allora. Un padre forte, per qualche decina di minuti, aveva lasciato il posto all'anteprima di un uomo più vecchio, a cui fanno male i muscoli e a cui si piegano le ginocchia.
Cerca di parlare di altro, ma si vede, che combatte tra l'orgoglio di essere stato determinante e la paura di diventare pian piano più forte di me.

Fai bene a imparare queste cose - interrompo i suoi pensieri - così, se ti rimarrà la passione, se andrai in moscone da solo...
Tra quattro o cinque anni... - risponde.
Anche prima. Quando vorrai tu, quando ti sentirai pronto. - gli dico.

E mi cammina di fianco che sembra già un po' più magro, e va dritto, posando bene i piedi per terra, passo dopo passo.

lunedì 4 maggio 2015

A. che scappa.

Inizio che è un sabato. Avrei dovuto iniziare un lunedì – con un gran bell’affiancamento - ma un collega s’è ammalato, e così vengo gettato nella mischia. I ragazzi della Comunità mi approcciano ognuno a modo suo, con la grammatica che ogni storia personale permette loro di utilizzare: c’è chi si interessa di me e di che lavoro facevo prima, c’è chi mi fa sibilare pugni velocissimi e potenti o calci volanti a pochi centimetri dal viso per vedere se indietreggio o se i miei occhi si riempiono di paura, c’è chi mi offre una sigaretta che – scoprirò poi – in quel micromondo è un piccolo tesoro, c’è chi mi racconta storie più grandi di lui, c’è chi è contento che io parli un po’ della sua lingua e mi insegna nuove parolacce o modi di dire e c’è anche chi non parla proprio.
A., lui, non parla proprio.

“Lui?” – chiedo agli altri ragazzi.
“Ah, lui, stai attento: lui scappa – rispondono – A. vuole andare via, è già scappato molte volte, ma lo hanno sempre ritrovato e riportato qui. Parla poco e parla solo inglese ma, se lo sai e credi che noi ti raccontiamo delle palle, chiedilo direttamente a lui.”
“Come sarebbe a dire, che scappa?!”
“Sì – rispondono – lui vuole arrivare a nord. Più a nord. Più a nord ancora. Dice che lo aspettano, che c’è tipo un amico del cugino del padre, che deve mandare i soldi a casa perché hanno fatto i debiti per fargli passare la prima frontiera e sua mamma sta male, deve mandare i soldi a casa.”
“…quando è arrivato, sembrava un gatto finito sotto a una macchina. – interrompe una ragazza - Era tutto graffiato, pesto…”
“Ci credo! – interviene un quindicenne con lo sguardo da uomo – Prova te, a saltare da un camion in corsa!”
“Madonna, le palle che raccontano questi.” – penso, e mi metto a cucinare. Io sono bravo, a cucinare, e entrerò nel loro cuore passando anche per lo stomaco.
L’ho già fatto altre volte con altre persone, in vita mia.

A un certo punto, tutto è tranquillo. Nessuno litiga, nessuno si prende in giro, nessuno urla. Troppo tranquillo. Scatta l’allarme: A. non si trova più.
“Siete sicuri, che sia scappato?” – chiedo a un collega.
“Sì, è scappato di nuovo, di sicuro. – rispondono i compagni di stanza di A. – Non c’è più il suo caricabatterie del cellulare, il Corano e il suo maglione azzurro.”
Continuo a cucinare, perché io in quel momento solo quello, so fare, mentre i colleghi vanno a cercare A. Metto a tavola i ragazzi e apparecchio anche per lui, anche se non c’è e forse non ci sarà più.
Tornano dopo due o tre ore, e A. è con loro. I ragazzi gli fanno festa e lui sorride senza furbizia, dispiaciuto di essere andato via almeno quanto di non essere riuscito a scappare.
“A.! – gli dico in inglese, mentre tutti se lo abbracciano – Che idea è questa, scappare quando ci sono le tagliatelle a cena! Siediti, ecco, ti ho messo via un piatto. Mangia, non ti preoccupare, va tutto bene.”
Lo conosco da poche ore ma mi accorgo che sull’ultima frase l’ho abbracciato anch’io, e lui ha ricambiato guardandomi con gli occhi buoni e col suo sorridere che scoprirò poi essere tipico, inarcando la bocca senza scoprire i denti.
“Dove l’hai trovato? – chiedo al collega che l’ha riportato indietro – Come hai fatto a caricarlo in macchina?”
“Lui vuole partire. Deve lavorare, deve mandare dei soldi a casa, alla madre. – risponde – Ho fatto tutte le stazioni del circondario finché non l’ho trovato.”
“Sì, ma l’hai caricato a forza?” – chiedo, più per sapere come regolarmi - succedesse a me – che per amore di cronaca.
“No. Gli ho messo una mano su una spalla e poi gli ho mostrato gli orari dei treni, nel cartellone. E non ce n’erano, e iniziava a fare freddo. E’ salito in macchina da solo.”
Poi sono passati i giorni e ho continuato a cucinare, e ogni tanto parlavo con A. Dice che la madre sta male, che han bisogno di soldi. Dice anche che per la prima frontiera che ha passato, han dovuto fare i debiti, pagare molto. Ma lì non c’è lavoro e ci sono i fanatici religiosi, quelli che non scherzano niente. La seconda frontiera, lo han fatto passare facendo finta di non vederlo, tanto in quella frontiera lo sapevano che lui non si fermava lì ma che avrebbe proseguito verso l’Europa, passando per un paese che a quelli del paese di quella frontiera, non gli sta mica molto simpatico. Arrivato lì, erano iniziati i problemi, e questo ragazzino era stato in carcere, senza aver fatto niente, per quasi un mese. Poi era riuscito a uscire perché a un certo punto, anche quelli lì, si voltavano dall’altra parte.
Così, era montato nel retro di un camion, dopo essersi nascosto nei pressi di un distributore. Solo che, a un certo punto, il camionista se ne era accorto – che i legacci del retro non erano mica come li aveva messi lui - quando erano già in Italia, allora A. era uscito dal fianco e era salito sul tetto del camion. Il camionista è ripartito e A. si è reso conto che non poteva durare molto, così, allora aveva saltato.
Così, quando era arrivato, sembrava un gatto finito sotto a una macchina.
Lui doveva scappare, arrivare molto più a nord, che lì lo aspettavano. Rispetto alle frontiere che aveva già saltato e alle situazioni a cui aveva dovuto far fronte, l’Europa doveva sembrargli di burro, da attraversare. Però noi lo abbiamo accudito, gli abbiamo dato un tetto e cucinavamo per lui: doveva andare, ma si vedeva, che gli dispiaceva perché ci eravamo curati di lui e gli sembrava di mancarci di rispetto, a non onorare la nostra ospitalità salutandoci come si deve.
Una volta mi sono ricordato di quanto sono mediocre e gli ho detto “A., mi fai un favore?”, allora ha inarcato la bocca e fatto “sì” con la testa.
“Io sono nuovo. Non sono mica tanto bravo, con tutti i casini dei fax e chiama quello e avvisa quell’altro. La prossima volta che scappi, per favore, non è che puoi farlo quando non sono in turno io?”
Allora lui ha sorriso e annuito, abbiam finito la nostra sigaretta e non se ne è parlato più.

Poco tempo dopo, arrivo in Comunità e i ragazzi mi dicono che A. è scappato, qualche giorno prima. Sono andato in camera sua e niente, niente caricabatterie del cellulare e niente Corano. Neanche il suo maglione azzurro.
“Aveva dei soldi?” – chiedo d’istinto ai ragazzi, perché A. non aveva un soldo, di solito.
“Sì, non ti preoccupare.” – qualcuno mi risponde, e capisco dal tono che posso anche smettere di fare domande.
La sera, sento qualche rumore da social network che mi suona familiare, e un ragazzo che sta al pc a un certo punto si disconnette e si alza, ma nessun altro si avventa al pc. Dice una cosa in una lingua che non conosco a un paio di altri ragazzi. Torno ad apparecchiare e vedo che questi sussurrano qualcosa nell’orecchio agli altri. Nessuno litiga, nessuno si prende in giro, nessuno urla.
Faccio passare un po’ di tempo, fino a trovarmi a fumare con uno dei ragazzi, di fuori.

“Noi, immagino – buttò lì – non c’è modo, vero, di sapere se A. sta bene, se ha mangiato, se è al caldo…”
“Già. – risponde – Noi non lo sappiamo, che A. sta bene, che ha mangiato, che è al caldo. E non sappiamo neanche che tra qualche giorno arriverà dove vuole arrivare.”

martedì 24 marzo 2015

Le mirabolanti avventure del Signor Girandola da Vabehdài.

Vado a prendere il piccolo a scuola, ché il piccolo va preso a scuola e da scuola, dato che da quando ci fuoriuscivo io, da quella stessa scuola, e tornavo in bicicletta o a piedi e inciampavo e mi sbucciavo le ginocchia e rubavo una fragola dalle cassette fuori dal fruttivendolo, da quella volta il mondo dev'essere peggiorato un sacco e quindi i piccoli van ritirati all'uscita, così è anche meno probabile che si sbuccino le ginocchia tornando di corsa o in bicicletta.
È anche impossibile che rubino una fragola, dato che ci siamo noi che li ritiriamo e poi molti, spesso, si chiudono nelle automobili dove - a meno di non essere molto ma molto fortunati - anche a guardare bene bene, fragole da rubare, non ce ne sono.
Meno male che non lo mando a fare i sacramenti, al piccolo, se no - senza rubare una fragola come me - cosa vuoi che abbia da confessare, uno che ha nove anni. Comunque, io che ho fatto entrambe le cose, cioè rubato fragole e Prima Comunione, ci terrei a farvi sapere che una fragola era quotata circa tre Ave Maria, per cui - tenendo conto dell'inflazione, dell'euro e tutto - secondo me se adesso vi mettono il furto di una fragola (anche se grossa, succosa e dolce come la mia di quella volta) a più di cinque Ave Maria, vi stan fregando e io mi piglierei su anche mezzo kiwi, a quel punto.
I kiwi, però, quando avevo nove anni io, dal fruttivendolo non c'erano, quindi non ci metterei la mia anima sul fuoco sulla questione di eccedere le cinque Ave Maria: magari il kiwi è molto importante per le gerarchie ecclesiastiche e ve lo mettono a svariati Gloria al Padre, cosa che - essendo molto brevi, non sarebbe un gran problema.
Però, se poi salta fuori roba lunga e difficoltosa tipo i Padre Nostro o addirittura picchi à la Schopenhauer quali qualche Atto di Dolore, non venite a farmi le storie, insomma.
Per sicurezza, magari, invece che il mezzo kiwi pigliatevi una mela, che sono molto comuni e dovrebbero... No, va là, adesso che ci penso lasciate stare la mela, che l'ultima volta è successo un casino.

Ero rimasto che Vado a prendere il piccolo a scuola, però.
Mi metto il mio cappottino nero da mezza stagione anzichè il mio cappottone nero da intera stagione, mi ricordo di prendere su la lampadina che devo cambiare in camera del grande ("Ricordati di portare il pezzo vecchio in ferramenta, per non fare cappelle a prendere in nuovo" sarebbe stato un buon undicesimo comandamento, secondo me, oppure si può sostituire a quello degli Atti Impuri, che tanto vien gestito parecchio sportivamente) e inforco il monopattino del piccolo, perchè al piccolo piace molto tornare in monopattino e ci siam addirittura studiati come andarci in due.
Il fruttivendolo, purtroppo, in questi trent'anni abbondanti che stan tra me e il piccolo, ha chiuso. Anche "meno male che ha chiuso", però, ché mica il piccolo e io ci possiam presentare in chiesa per un paio di fragole senza che il prete pensi che lo pigliamo un po' per il culo, secondo me.
Insomma, a metà strada un cagnolino bianco dotato di un pelo così folto e lungo da dimostrare come la natura non abbia alcun senso del ridicolo, questa bestiolina gentile che di solito mi guarda e scodinzola da dietro una cancellata, mi si para davanti. Per l'occasione e per celebrare questa inaspettata e fugace libertà, il cagnolino è ricoperto da dreadlock bianchi "nature", grigi "la strada è la mia casa, baby" e beige "sabbia bagnata, mica come i cani dei turisti" e decide che il rumore che proviene dal monopattino che sto conducendo lo infastidisce. Così, mi lascia passare e poi inizia ad abbaiarmi e corrermi dietro, ed è così arrabbiato e deciso che pare arrivarmi quasi all'altezza del ginocchio anziché al consueto "mezzo stinco".
Io reagisco senza variare l'andatura ma dicendo più volte "Mi arrendo, hai vinto tu" senza guardarlo negli occhi, dato che le fiere fiere vanno rispettate ed è meglio sottomettersi.
In lontananza, odo il rumore di un flessibile o, come lo chiamano quelli che han studiato, la mamma del flessibile e come è scritto sui biglietti da visita del flessibile, di una "Molatrice Portatile".
Il cane continua a starmi dietro e abbaiare, io continuo a arrendermi, il rumore del flessibile si avvicina.
Qualche altro metro e il cane continua a starmi dietro e abbaire, io continuo a arrendermi, poi sento un gran vocìo in qualche lingua straniera e il flessibile che inizia a fermarsi, con quel tipico rumore da turbina che rallenta, incurante dei ritmi della frenetica vita moderna.
Penso che forse si è fatto male qualcuno nel cantiere, quindi mi fermo e guardo il cane, che ci rimane un po' così, si siede e mi guarda in silenzio.
Poi guardo il cantiere da cui non proviene più alcuna voce.
Anche il cane guarda il cantiere, penso.
Quando vedo un cantiere di gente che guarda me e il cane dalle impalcature, realizzo che gli operai si sono fermati e richiamati tra loro - compreso quello col flessibile - per guardare uno con un cappottino nero e una lampadina in mano che va su un monopattino da decenne, inseguito da un cane che pare un cappuccino esploso e subito congelato al quale, peraltro, il monopattinista lampadinato si arrende ripetutamente.
Guardo il cane, il cane guarda me, vado verso la scuola, il cane si volta e trotterella via perchè secondo me si rende conto, parte qualche sghignazzo dal cantiere, parto anch'io e poi riparte pure il flessibile.

Son davanti alla scuola, ho parcheggiato il monopattino, smaltito la lampadina dal ferramenta, dell' ice - canappuccino nessuna traccia, che soppeso come devo sembrare ben strano delle volte e di quanto poco me ne fotte quando un'Ape Piaggio azzurra piglia la curva alla smodata velocità di circa trenta chilometri orari. Fissata per fuori sulla carrozzeria, c'è una girandola a vento di quelle tutte colorate che sta girando forsennatamente, fissato per dentro nella carrozzeria, c'è un signore sui settant'anni coperto come una sentinella di Stalingrado e fissati sommariamente per dietro, nel cassone, lo sviluppo di quelli che una volta probabilmente erano un paio di frigo, R2-D2, mezzo forno e qualche pezzo della centrale di Fukushima.

Sul sembrare ben strani, a quel punto, ho pensato "Va beh, dài.", poi m'è venuto in mente che magari l'Ape Piaggio azzurra e tutto sono una copertura e che il signor Stalingrado Girandola è un po' in fuga anche lui, perchè è un Fratello Ladro di Fragole.

sabato 14 febbraio 2015

Allora, San Valentino, secondo me.

San Valentino, quella festa stupida
che la gente che - dice - si amano
si scambia regali stupidi.

Io, te, il mare, ti regalerei.
"Puzza un po'" o "E' umido",
diresti, secondo me.

Allora io, te, il rock grunge, ti regalerei.
"Troppo rumore" o "E' roba triste",
diresti, secondo me.

Allora io, te,  tutta la birra del mondo, ti regalerei, a costo di andare lungo e smanare tutta la metrica.
"Bastan due dita" o "Son già brilla di mio",
diresti, secondo me.

Allora, io, dato che nasco nobile d'animo,
"Che due coglioni" o minimo "Ma pensa te, questa",
penserei, secondo me.

Poi - succede - ti guardo e penso che ti glasserei
del bene che mi tracima verso di te,
la maggior parte del tempo.

E spero che tu mi guardi e glasseresti uguale,
ma anche la minor parte del tempo,
andrebbe bene. Sporadicamente.

Poi penso
"Nonostante noi,
abbiam fatto bene."